Da: Il Timone, 28 agosto 2023 (F. Piemonte)
Cristoforo Colombo non è stato un umile marinaio sprovveduto nativo di Genova. Lo rivelano le recenti ricerche di Giorgio Enrico Cavallo – docente, storico e giornalista divulgatore – confluite nel saggio Cristoforo Colombo. Il nobile (D’Ettoris 2021, pp. 264). Il Timone lo ha intervistato per approfondire i risultati dei suoi studi.
Professor Cavallo, ricercando tra gli archivi documenti sulla figura di Colombo, cosa ha scoperto di particolarmente rilevante?
«Il racconto di un Cristoforo Colombo quale mozzo di umili origini, figlio di un cardatore di lana, che diventa ammiraglio e incontra sovrani e papi è di fatto poco credibile. I documenti dicono altro: al di là dei suoi natali, non genovesi ma legati con buona probabilità ai Cuccaro Monferrato piemontesi, le sue origini familiari sono nobili. Ciò spiegherebbe sicuramente meglio la sua conoscenza della Bibbia, del latino e della cartografia, come la frequentazione dei salotti della corte portoghese, alla quale erano tutti aristocratici. Tra l’altro riceve anche il titolo di “don” e poi addirittura di Viceré delle terre scoperte».
Colombo è stato quindi un “cavaliere”?
«Sì, l’ultimo dei cavalieri medievali, desideroso di trovare tesori per finanziare una crociata che liberasse la Terrasanta; un aristocratico che, preoccupato della conversione degli indios, li difende dalle grinfie dei suoi compagni di viaggio e dei primi conquistadores. La Spagna infatti è stata in prima linea nel tutelare i diritti degli indios. Le riserve indiane furono una triste realtà del mondo protestante e non, come comunemente si crede, dell’America latina cattolica».
Colombo era allora un uomo di fede?
«La sua fede è insita in effetti nel suo stesso nome “portatore di Cristo” che ne designa anche la missione tra gli indigeni. Si fa terziario francescano; ripete spesso: «Che Gesù e Maria siano con noi sulla via»; nutre uno zelo profondo per la conversione reale degli indios, contrastando la politica dei battesimi imposti dai conquistadores. Interessante in questo senso anche la progressione dei nomi dati alle isole scoperte: Cristo Gesù (San Salvador), la Santa Vergine (Santa María de la Concepción), il re Ferdinando (Fernandina) e la regina Isabella (La Isabela). Inoltre è ben consapevole di dovere la riuscita di ogni viaggio alla sola azione della Provvidenza divina».
Quali altri segni concreti della sua fede si evincono nei suoi viaggi?
«In ogni isola o promontorio ove Cristoforo posava piede ordinava che venisse eretta una grande croce di legno, pregava e cantava gloria a Dio. Non prendeva mai il mare la domenica. Nello scampare a tempeste e uragani, Colombo custodiva sè e il suo equipaggio con voti sacri. Nel secondo viaggio del 1493 scoprì un’isola chiamata Guadalupe, in omaggio al santuario presso il quale si era recato proprio per assolvere a un voto fatto. Morendo disse: «Padre nelle tue mani consegno il mio spirito». La Chiesa ne ha aperto la causa di beatificazione che, però, con la morte di Leone XIII, è stata purtroppo sospesa».
Il suo ultimo saggio, 1492. La crociata che cambiò il mondo (D’Ettoris 2023) è una sorta di sequel del volume su Colombo?
«Sì, mi sono soffermato su contesto e protagonisti del periodo dalla Reconquista spagnola alla conquista dell’America, decostruendo la vulgata secondo cui i famigerati conquistadores avrebbero annientato civiltà raffinate e progredite e depredato i loro territori. La conquista spagnola è stata una prosecuzione delle crociate. Colombo, Cortés, Pizarro interpretano la crociata come uomini dell’età rinascimentale e, quali nobili cavalieri, hanno compiuto imprese per la maggior gloria della cristianità. Certamente se da un lato la conquista spagnola del Nuovo Mondo introdusse la civiltà in America, fermando gli efferati sacrifici umani e innalzando la croce sul Nuovo Mondo; dall’altro è pur vero che l’utilizzo di metodi brutali e la bramosia di potere di molti conquistadores hanno incentivano la propaganda anticattolica nei confronti della Spagna di Carlo V e Filippo II. Resta il fatto che nelle Americhe gli indiani hanno incontrato un Dio che proibiva il cannibalismo e i sacrifici umani, un Dio d’amore».