di Alessandro Claudio Giordano (Cuneo Sette, 12 marzo 2024)
Il web ed ancor più You Tube stanno cambiando le nostre abitudini, proponendoci percorsi formativi differenti dagli abituali libri che accompagnavano sino ad alcuni anni fa le giornate di studenti e semplici curiosi o appassionati cultori di analisi che spaziavano dalla matematica alla filosofia, al sociale sono alla storia. I podcast oggi si prestano ad una formazione in “autonomia” utili per sintesi ed un linguaggio accessibile ai più. Ho incontrato Giorgio Enrico Cavallo, docente, storico, poeta, ricercatore e giornalista che promuove con i sui podcast un percorso di carattere storico legato all’ottocento europeo. Con lui ho chiacchierato delle sua passione per la storia e di come abbia saputo ben coniugare web e storia, registrando un crescente successo.
D. – Ti chiederei un breve excursus sulla tua formazione e da cosa nasce la tua passione per la divulgazione storica?
R. – Ho 34 anni, e da quando ho memoria sono stato un appassionato di storia e di storie; il motivo, forse, è legato alle storie che mi raccontava mio nonno, il quale aveva una casa ricca di quadri di famiglia e di documenti emozionanti, come le lettere e le medaglie del mio bisnonno che partecipò alla Grande Guerra. Su un bambino questi oggetti esercitano sempre un discreto fascino, specie se “raccontati”. E mio nonno amava raccontarmi queste storie. Il piacere del racconto l’ho preso da lì e forse è un po’ genetico: di un altro mio avo si dice che intrattenesse il paese con le storie dei re di Francia e di Savoia. Buon sangue non mente!
D. – La storia ci aiuta a capire il nostro presente. La “storia “ però è stata spesso relegata al contesto scolastico. Oggi però con l’ausilio dei nuovi media, è possibile incrociare documentari, podcast o lezioni. Tutto questo è utile a creare una coscienza più critica in chi ascolta o frequenta questi momenti a sfondo formativo?
R. – La coscienza critica è la base per uno studio attento di qualsiasi cosa. L’importante è saper ragionare con il proprio cervello, e questa capacità deve essere trasmessa in primo luogo dalla famiglia, in secondo luogo dalla scuola. Solo in terzo luogo può essere trasmessa dai mezzi di informazione, anche quelli innovativi come You tube. Attenzione, però: la rete mette a disposizione un oceano di materiale, che non sempre è di qualità.
D.- Al di là degli impegni su You Tube, hai scritto molto. Tra le tante pubblicazioni, ultima delle quali è “1492, la crociata che cambiò il mondo” a quale sei più affezionato?
R. – Inizio a perdere il conto delle mie pubblicazioni. Tuttavia, sono più affezionato a quello che c’è dietro un libro, perché la parte più bella e stimolante del mio lavoro è la ricerca, spesso ricerca d’archivio, molte volte in archivi disordinati o polverosi. In alcuni casi mi sono intrufolato in cunicoli e stanze mai aperte al pubblico, come una specie di Indiana Jones. Più spesso, ho avuto accesso a materiale raccolto da collezionisti o a lettere e documenti di privati; da ognuno di loro ho avuto modo di apprendere, spesso cose minime ma per me fondamentali per avere una visione di insieme. Ecco, è questa fase preparatoria alla quale sono affezionato. Mi affeziono sinceramente a tutti gli argomenti di cui scrivo: tutti sono nel mio cuore. Tra essi, però, uno tra tutti mi sta occupando tempo e anima: Cristoforo Colombo, uomo la cui vita è un mistero e al quale ho dedicato due libri e sto scrivendone un terzo.
D. – C’è un periodo storico che ricordi l’incertezza politica che viviamo oggi?
R. – Facilmente potremmo ricondurre la nostra epoca alla fine dell’Impero Romano. Ci sono tutti gli elementi per fare questo parallelismo, ma purtroppo credo che non sia sufficiente. Perché nella Roma antica non esistevano ideologie pericolose come quelle odierne. Anche nella decadenza, tutti avevano un ammirato rispetto per ciò che fu Roma; oggi, invece, assistiamo ad una narrazione dominante che divulga un aperto odio verso ciò che è stata la società occidentale. Tutto ciò non può che evocare tempi ancora più bui di quelli della fine di Roma.
D. -Il podcast è di fatto una rivoluzione copernicana nel contesto della formazione. Qual è la ricetta per una buona trasmissione a sfondo storico?
R. – La ricetta, se così vogliamo chiamarla, è data da un mix di più elementi, molti dei quali riassunti in un datato ma sempre valido librettino di padre Prosper Guéranger, che costituisce un po’ il mio libro-guida. Prima di tutto, l’amore per la verità. Non dimentichiamo che narrare la storia significa parlare di uomini e donne vissuti prima di noi: ci farebbe piacere se, in futuro, qualcuno scrivesse di noi cose non vere? Poi, lo studio. Non ci si improvvisa storici, così come non ci si può improvvisare in nessuna professione. Lo storico è un narratore e ha il compito di tramandare: non può, dunque, inquinare il passato con le idee del presente, cosa che invece oggi si fa con una spaventosa nonchalance. Il rischio? È dire o scrivere delle menzogne. Alla lunga, però, il pubblico se ne accorge, così come si accorge della passione che muove una persona. Infine, serve umiltà: non sappiamo tutto, né mai lo sapremo. Partendo dal fatto che non siamo onniscienti, ma che abbiamo sempre bisogno di apprendere, si possono fare grandi passi avanti.
D. – I tuoi podcast stanno riscontrando un seguito sempre più crescente. A quale pubblico ti rivolgi?
R. – Molto semplicemente: a tutti coloro che amano la storia.
D. – Il divulgatore oggi deve per forza di cose conoscere e frequentare i nuovi media. Che relazione hai con You Tube?
R. – Una relazione strana. Per molto tempo ho detestato i nuovi media; fino all’ultimo ho addirittura utilizzato un telefonino vecchio modello, senza internet e “diavoleri” moderne. Poi ho ceduto, perché ho compreso l’immenso potenziale dei nuovi mezzi di comunicazione, che sto ancora scoprendo. You Tube è un mezzo: può essere usato bene o male, come tutto ciò che è prodotto dall’uomo. Se usato bene, è uno strumento formidabile.
D. – Oltre ad essere scrittore, poeta, sei anche giornalista. In che misura è cambiata l’informazione in quest’ultimo periodo?
R. – Se posso parlare senza peli sulla lingua, io mi vergogno di essere un giornalista. Mi vergogno dell’Ordine, mi vergogno del livello penoso dell’informazione in Italia. Rimpiango i tempi in cui il giornalismo era una cosa seria, e non una rincorsa al “clic” sui social. Rimpiango i tempi in cui gli articoli erano scritti per informare, per amore della verità e senza il peso oppressivo del politically correct. Nel far west dell’informazione odierna, poi, le cose sono ulteriormente peggiorate: basti vedere l’intelligenza artificiale, che sta già trasformando la nostra professione. Ma, per quanto “intelligente”, un algoritmo non sarà mai umano. Non avrà a cuore la verità. Fornirà un testo preconfezionato, povero di parole, povero di idee. La gente se ne accorgerà. Quei pochi che fanno e che faranno bene il loro lavoro, dando lustro alla loro professione, emergeranno.