Giorgio Enrico Cavallo

Agricoltura fa rima con patria

L’uomo delle caverne compì uno dei primi e più significativi balzi verso la modernità imparando a coltivare, diventando cioè da cacciatore nomade a coltivatore sedentario. L’agricoltura è all’origine delle patrie: i popoli di allevatori – come i nomadi dell’Asia – hanno sciamato per secoli, senza trovare una meta se non in età più o meno recente. I popoli di agricoltori, invece, quella meta l’hanno trovata millenni fa: era la terra che coltivavano. Le prime patrie sono state quelle attorno alla propria casa, dove si arava la dura terra per ottenere quel poco che la natura metteva a disposizione senza trattori e senza pesticidi.

L’agricoltura è alla base delle nostre culture. L’Italia ne è un esempio: nazione contadina per eccellenza, paese dei mille borghi – ognuno dei quali sorto attorno ad un campo coltivato in antichità – il Belpaese è per la varietà della sua produzione agricola un luogo benedetto, giustamente divenuto celebre nel mondo per la varietà e la salubrità della sua cucina tradizionale.

Sembrano ovvietà, ma nel mondo moderno all’incontrario perfino l’agricoltura è messa in pericolo. E via la carne, perché – boh? – gli allevamenti inquinano. E via i campi agricoli perché – boh? – i campi inquinano. Via tutto, perché tutto inquina. A vantaggio di cosa? Non si sa. Forse a vantaggio di nulla, perché togliendo la campagna coltivata è questo che si ottiene: il nulla. Le province si spopolano, la biodiversità va in malora, le tradizioni si spengono, le patrie muoiono. Ed è ovvio: se tagli una pianta alla radice, la pianta muore. Davvero dobbiamo credere che gli uomini della preistoria fossero più lungimiranti di noi? Per quello che mi riguarda, la risposta può solo che essere affermativa.