Quattro araldi coronati sostengono, dal 1899, l’urna contenente le spoglie mortali di Cristoforo Colombo, l’uomo che scoprì l’America e la consegnò al cattolicesimo romano. L’artista madrileno Arturo Mélida (1849-1902) rappresentò così i quattro regni della Spagna medievale (Castiglia, Aragona, Navarra e León) che rendono omaggio per l’eternità all’uomo che più di tutti ha reso grande la Spagna, l’uomo che ha portato l’Europa oltre l’Europa e che ha fatto del cristianesimo, da religione provinciale europea, il credo prevalente nel mondo. Mélida, in quest’opera giustamente famosa ha evidenziato il carattere politico della Scoperta, resa possibile grazie all’appoggio delle corone di Castiglia e Aragona, allora unite sotto Isabella e Ferdinando II, e soprattutto ha chiarito la missione crociata del Navigatore, poiché è impossibile non notare la grande croce retta da uno dei due araldi principali, la quale trafigge un melograno, simbolo di Granada e dei mori. La croce che vince il melograno è la croce della Reconquista che spezza il giogo musulmano. È l’emblema della crociata che ha spazzato via il regno di Granada e ha ridato la Spagna agli spagnoli. È il simbolo della crociata che Colombo, terziario francescano e fervente cattolico, ha esportato nel Nuovo Mondo.
La crociata in America, dunque? Sì. Sono dell’avviso che solo con questa definizione sia possibile comprendere l’epocale avvenimento del 1492 e degli anni che seguirono. La crociata che cambiò il mondo, perché – contrariamente alle altre crociate medievali – quella iberica fu l’unica che funzionò davvero. Innanzi tutto, perché Spagna e Portogallo sono, ancora oggi, indipendenti e liberi dalla dominazione musulmana, e questo è evidente; ma soprattutto, perché l’America latina è stata plasmata dal cristianesimo, che si è imposto in tutto il continente con il fervore di uomini che credevano e che credevano in modo totalizzante. E questo è stupefacente, soprattutto pensando che il cristianesimo si è diffuso nonostante la lascivia, la cupidigia e la pochezza morale di molti altri uomini, che fecero della fede un utile instrumentum regni.
La fede limpida di Colombo vinse gli incredibili ostacoli dei suoi primi viaggi; la fede militaresca di Cortés gli consentì di superare l’orrore dei sanguinari cannibali aztechi, sconfiggendo con un manipolo di uomini un impero potente e terribile; la fede opportunista di Pizarro gli consentì di tenere uniti i suoi soldati facendo di un esercito raccogliticcio un implacabile nemico per i superbi signori delle Ande. Uomini diversi, con destini diversi ma con una fede sola, sebbene declinata e interpretata in modo assolutamente personale. Si può credere ciò che si vuole, ma non si può negare che a spingere questi uomini verso l’impossibile fu la loro comune visione del mondo. Furono, a loro modo, dei crociati.
Ecco, quando scrivo della crociata americana sto pensando al collegamento con il trascendente, fortissimo in tutti i protagonisti di questa straordinaria e tremenda avventura. Non intendo dare un connotato morale all’impresa, sia chiaro; intendo renderla più personale, mettendo in luce ciò che fu in via prevalente l’imponente fenomeno storico che portò all’Iberoamerica. Non fu soltanto una conquista. Parlare di conquista dell’America è riduttivo ed evidenzia una certa visione della storia, nella quale le potenze vincitrici sono state tali per meriti militari e nient’altro. Non fu, inoltre, una colonizzazione. Definire colonizzazione dell’America il processo innescato da Colombo è ambiguo, perché non tutte le realtà del Nuovo Mondo furono davvero colonie. Lo furono, come noto, le conquiste inglesi – le famose Tredici Colonie! – ma non le propaggini americane dell’impero spagnolo, organizzate in vicereami e dirette emanazioni della madrepatria europea. Nessun paese “coloniale”, d’altronde, emanò nel corso dell’Era Moderna leggi così articolate e attente ai bisogni ed alle libertà degli indigeni come la Spagna che varò le Leyes Nuevas sotto Carlo V. Dunque, cosa fu il processo che portò all’Iberoamerica? Credo che la definizione più calzante sia quella di crociata. Furono crociate, a modo loro; e lo furono perché condotte da cavalieri imbevuti di spirito crociato, cresciuti in un paese che si era costituito nella lotta contro i mori; lo furono perché portate avanti da re intimamente cattolici come Isabella, Ferdinando II, Carlo V e Filippo II; e lo furono perché, di fronte ad abomini come quelli perpetrati dai selvaggi aztechi, anche i più recalcitranti guerrieri castigliani divennero crociati. Dovevano diventarlo, dovevano sperare di essere dei prescelti, dovevano credere di essere protetti da Dio. Altrimenti, l’incubo senza fine dei sacrifici umani li avrebbe travolti: sarebbero diventati sventurati prigionieri ai quali sarebbe stato cavato il cuore, oppure sarebbero dovuti tornare indietro, mestamente. Ma i cavalieri castigliani, alteri e sprezzanti, non avrebbero mai consentito ad una ritirata di fronte a barbari senza-Dio.
Gli uomini del XVI secolo non arretrarono. Compirono azioni nefande? Eccome. In guerra si compiono atrocità e depravazioni che inevitabilmente finiscono per macchiare i nobili fini iniziali – quando ci sono, se ci sono – e possono inquinare anche i più brillanti risultati. In guerra vincono i più ostinati, anche nel male. E così, se da un lato emergono figure di nobile ostinazione, dall’altra si segnalano altre figure determinate ad accaparrarsi quanto più possibile. Personaggi abietti, meschini, squallidi e opportunisti; individui che antepongono la spada al dialogo; uomini che, dietro il nobile fine di combattere il male, si fanno portatori del diavolo stesso.
Ho iniziato le mie ricerche attratto dal mistero di Colombo e sono sbarcato con lui in America, trovando – come i conquistadores del XVI secolo – nuove civiltà. I miei compagni di viaggio sono stati Cortés, i Pizarro, Balboa, Andagoya, Orellana… ho interpretato il Nuovo Mondo con i loro occhi, cercando però costantemente degli appigli nella nostra contemporaneità. E ho trovato il loro mondo più verace del nostro. Certo, affascinato da miti bizzarri e fiabeschi, come l’isola California o l’El Dorado, ma pur sempre meno deformato dal nostro Duemila, tronfio della sua onniscienza e appagato da altri sogni: quelli sorti dal sonno della ragione.
Basta dormire, dunque! Questo è un libro di storia e, come tale, si sforzerà di essere giusto. Giusto o per meglio dire onesto, onesto intellettualmente. Di onestà c’è bisogno, eccome, in una materia di questa vastità, nella quale troppe voci hanno urlato e sedotto nel tentativo di mettere a tacere la verità o distogliere il pubblico da essa. Io scriverò umilmente, con il livello e la capacità permessi dalla mia arte. Cercherò di bilanciare Leggenda Nera e Leggenda Aurea, addentrandomi tra luci ed ombre che sempre, come tutti gli avvenimenti umani, segnano la vita dei popoli. Grandi luci, perché la mia materia fu indubbiamente condotta con eroismo e spirito crociato; grandi ombre, perché gli eroi finirono per diventare vittime delle loro cupidigie e delle loro bramosie. Fare queste affermazioni, e farle nel rispetto delle fonti, non significa essere di parte: significa essere onesti, e guardare alla storia con amore. Amore per il nostro passato. Amore, soprattutto, per la verità.
Verità! Che parola grande! Oggi, dopo secoli di relativismo condito in diverse salse e in diverse filosofie, stentiamo a credere che dal passato si possano trarre degli insegnamenti oggettivi e che la verità possa brillare. Ma chi scrive è certo che la verità sia una luce, e una luce calda e seducente. Una luce stimolante e al contempo rassicurante. Ed ecco, dunque, il fine principale di questo libro: levare la bandiera della verità in un mondo annebbiato dalla falsità ciarliera, essere un piccolo, umilissimo argine a quel disordine menzognero che è divenuto il nuovo ordine del mondo. Il disordine – che è sempre nemico della verità – insiste da tempo sulla conquista spagnola delle Americhe, come se fosse stata soltanto un momento negativo e terribile nella storia dell’umanità. Negli Stati Uniti, patria ormai di tutte le più aberranti e disumane filosofie, Cristoforo Colombo viene deriso, ostracizzato, calunniato: i suoi monumenti sono abbattuti in nome di una malnata cancel culture, traducibile in italiano come “non cultura” o, peggio, “cultura del nulla”, che ambisce alla rimozione sistematica di tutto ciò che può ricordare il vecchio passato cristiano. Si accusa lo Scopritore dell’America di aver avviato la tratta degli schiavi, mentre si affaticano le spalle di Isabella e Ferdinando, Cortés, Pizarro, Almagro, Belalcázar, Balboa, già gravate di accuse di ogni tipo, di sempre maggiori colpe. Ma a puntare il dito contro illustri uomini che furono maiuscoli sono, oggi, pallidi individui minuscoli. Mentre perdura la danza macabra di coloro che demoliscono i monumenti di un passato che non possono né vogliono comprendere, il mio lettore avrà la possibilità di conoscere qualcosa di più. E se è vero che i libri di storia nascono con il fine ultimo di diventare vecchi, per il semplice motivo che la storia procede e che mutano anche le premesse che soggiacciono alla loro stesura, allora io mi auguro che questo volume invecchi, e invecchi presto: ma, come il vino, invecchi bene, in un mondo nel quale gli spettri della barbarie siano sconfitti da moderni cavalieri amanti della cultura. Quella vera. Mi auguro che questo libro invecchi, sì, in un mondo finalmente volto sulla strada della verità.
L’Autore
[G. E. Cavallo, 1492, la crociata che cambiò il mondo, D’Ettoris Editori, Crotone 2023, pp. 19-23; tratto dalla Prefazione].