Giorgio Enrico Cavallo

La piroga che salvò la vita a Colombo

In questa ultima traversata del Golfo del Messico, [Colombo] scoprì le isole Cayman; non ebbe tempo di rallegrarsi per questo primato: le sue imbarcazioni erano infestate dai parassiti e le teredini avevano corroso il legno. Colombo non poteva sapere che le teredini sono diffusissime nelle acque caraibiche; si vide costretto ad abbandonare la caravella di Bartolomeo Fieschi, la Vizcaína. Le ultime due navi rimaste furono quindi sorprese da una tempesta e mandate fuori rotta: al termine del fortunale, erano così malconce da essere ormai inutilizzabili. Le pompe lavoravano a ciclo continuo per tenere a galla le imbarcazioni, logorate dalle teredini e lacerate dalle continue tempeste. Approdarono in Giamaica e si fortificarono perché, nuovamente, gli indios non dimostravano di essere particolarmente amichevoli. Cercando di avere meno rapporti possibili con gli indigeni, l’ordine di Cristoforo fu di restare a bordo, ma i legni erano così malconci che non era possibile riprendere il mare. Avevano poche provviste di cibo e acqua. Era dunque necessario un aiuto; ma a chi chiederlo?


Così, Bartolomeo Fieschi e l’amico luogotenente Diego Méndez si avventurarono in un’impresa a dir poco folle: con due canoe, insieme ad una manciata di indios, attraversarono il vasto braccio di mare che separa la Giamaica dall’Española. La traversata, proposta dallo stesso Ammiraglio con il fine di acquistare una nave che portasse i naufraghi in salvo, è narrata da Méndez nel suo testamento nel 1536. L’amico di Colombo riferì le parole con le quali avrebbe accettato il disperato incarico: «Signore, ho soltanto una vita: io la voglio avventurare al servizio di vostra signora e per il bene di tutti quelli che sono qui, perché ho fiducia in Dio Nostro Signore [e spero] che, vista l’intenzione con cui lo faccio, mi libererà dal pericolo, come molte altre volte ha fatto».

Alle canoe furono applicate delle chiglia posticce, furono incatramate e modificate a poppa e prua per proteggerle dal mare. Le possibilità di riuscita erano scarsissime. All’alba del quarto giorno di vogata, tormentati da una calura asfissiante, giunsero nella piccola isola di Navassa; quindi, ripresero il largo approdando a Santo Domingo percorrendo 30 miglia di mare senza incrociare alcuna terra: «Volle Dio, Nostro Signore, che dopo cinque giorni io arrivassi all’isola Española, nel Capo San Miguel, ed erano due giorni che non prendevamo cibo né bevanda, poiché non ne avevamo»

Da: G. E. Cavallo, Cristoforo Colombo il nobile, D’Ettoris Editori, Crotone 2020, pp. 155-156]