Giorgio Enrico Cavallo

Pugnani e i musicisti della corte sabauda: un oblio durato tre secoli

Gaetano Pugnani: chi era costui? Se ponessimo questa domanda di manzoniana memoria al vasto pubblico, probabilmente non otterremmo molte risposte. Di Gaetano Pugnani, violinista di chiara fama, virtuoso, compositore e anima della vita musicale del regno di Sardegna, si è persa la memoria, inghiottita dalle nebbie del tempo e dalla triste dimenticanza degli uomini. Perché? I motivi sono diversi e molteplici. Pugnani non ebbe la vita avventurosa di un Mozart: visse per gran parte degli anni a Torino, dove era il vero deus ex machina della cultura musicale piemontese; per questo, forse, nonostante fosse il primo e più celebre musicista della corte sabauda, il suo nome all’estero fu poco luminoso, specialmente al confronto di altri violinisti come Viotti, che pure fu suo allievo. Ma non c’è solo questo motivo: Pugnani, infatti, ebbe la sventura di morire in un anno – il 1798 – nel quale il Piemonte di Antico Regime tramontava per sempre, con quella sventurata abdicazione del Re Carlo Emanuele IV che segnò la fine di un’epoca e l’inizio di un’altra, quella napoleonica. Nel 1799 il Piemonte sarà annesso alla Francia. Facile capire come i simboli del vecchio regime andassero in qualche modo dimenticati. Pugnani, che ebbe ogni onore dalla corte sabauda, venne destinato all’oblio, al pari di tanti altri suoi colleghi. Va detto, all’epoca ciò non era infrequente per i compositori; ma il caso di Pugnani – e, lo si vedrà, degli altri musicisti della corte sabauda – è decisamente emblematico. Non fu un’azione deliberata, ma una conseguenza naturale dello stato delle cose: il ventennio napoleonico in Europa condizionò pesantemente anche la cultura. Stava nascendo quel gusto romantico che sarebbe penetrato così profondamente nelle coscienze degli europei, e che avrebbe cancellato gusti e modi di essere tipici dell’epoca antica. Nasceva l’Europa contemporanea, moriva quella medievale. In questo stato turbolento delle cose, Pugnani si trovò sacrificato sull’altare della storia, insieme a mille e mille altri suoi colleghi, sui quali solo da pochi anni si inizia a far luce.

Ma c’è dell’altro. Su Pugnani, così come sul suo maestro Somis, sui suoi colleghi Besozzi, Giardini, Giaj, e sugli allievi Traversa, Polledro, Bruni, e su tanti altri, cadde repentinamente l’oblio, benché si sia trattato di nomi talvolta di grande peso artistico. Possibile? Un’intera scuola violinistica – quella Piemontese – venne cancellata dalla storia dell’arte, negata al grande pubblico, figurando al pari di una “chicca” per eruditi. Unico a salvarsi da questa damnatio memoriae fu Viotti, ma a giovargli fu una vita romanzesca, un virtuosismo incredibile e un’attività svolta nelle principali capitali europee; in ogni caso, in Italia la seria riscoperta dell’opera viottiana è avvenuta solo negli ultimi anni. Insomma, non si può non notare che tutti i grandi nomi che hanno caratterizzato la vita musicale di Torino e del Piemonte sono misconosciuti dai più. I piemontesi sono ricordati per essere stati un popolo di guerrieri, di burocrati e di politici: non di artisti, men che mai di musicisti. Ma è vero? Il valore dei Somis, la grazia di Giardini, l’opera complessa e completa di Pugnani stanno a testimoniare che così non fu: anche il Piemonte diede prova di essere una terra che fruttò grandi artisti. Semmai, non seppe valorizzarli. E, per sventura, proprio quando la monarchia sabauda, a inizio Ottocento, tornò sul suo trono, iniziò quel periodo travagliato dei moti e delle guerre di indipendenza italiane. Il Piemonte, da sempre a cavallo tra Francia e Italia – ma in realtà del tutto peculiare, e quindi né francese e né italiano – si trovò a scegliere per una volta e definitivamente da che parte della storia voleva stare. Ci pensò Re Carlo Alberto: il Piemonte doveva essere italiano. E la sua italianizzazione forzata comportò la rimozione di molti simboli della piemontesità, a cominciare dall’arte. Torino, che si apprestava a diventare prima capitale della nazione unita, doveva mutare il nome delle strade, dimenticare di essere piemontese e scoprirsi una buona volta italiana. Lo sentiamo ancora oggi: tutto ciò che è legato al “Vecchio Piemonte” – per usare una fortunata espressione di Costa de Beauregard – sa di antico, noioso, polveroso.
Quel Gianduja con codino e tricorno sembra una maschera da pensionati, non da giovani; e così quanto è legato alla moda, alle tradizioni, alla cultura del Piemonte di Antico Regime, a cominciare dalla lingua piemontese, viene percepito dagli stessi piemontesi come qualcosa di inutile e, anzi, quasi di vergognoso.

Vergognoso, ma perché mai? Perché – è la risposta classica – non interessa. Non interessava prima agli italiani, non interessa oggi agli europei ed al mondo globalizzato. Il sentimento di esultanza provato quando il Piemonte unì l’Italia mutò da subito in vergogna, confrontando la storia di Torino con quella di città più prestigiose, come Roma, Firenze, Venezia, Milano. Inutile ricordare ai piemontesi che la loro terra partorì grandi uomini, esattamente come le altre città d’Italia: per anni i piemontesi si cosparsero il capo di cenere, come se la loro storia fosse un crimine, del quale vergognarsi. A ciò, si sommi la forte immigrazione che ha caratterizzato la Torino del dopoguerra: in fondo, ed è facile comprenderlo, chi veniva da un’altra terra portava in quella nuova i suoi usi e i suoi costumi. Lo stato italiano non fu di aiuto, presentando come modelli culturali autori e artisti provenienti da tutta la penisola, e dimenticano ripetutamente e colpevolmente il Piemonte. Chi protestò? Nessuno. I piemontesi, vittime del loro sentimento di vergogna, semplicemente si fecero da parte, disconoscendo Gianduja e il Re, ma anche uomini come Gaetano Pugnani.

[Da: G. E. Cavallo, Gaetano Pugnani e i musicisti della corte sabauda del XVIII secolo, prefazione]