Napoleone e il suo ladrocinio in Italia nel libro di Giorgio Cavallo

Da: Europacristiana, 4 dicembre 2022 (Cristina Siccardi)

Collocare un’opera d’arte fuori dal suo contesto geografico, culturale e religioso è in termini realistici un ladrocinio, una profanazione, un’infamia. Tutto ciò è accaduto in Occidente in maniera violenta e massiccia, con furia barbarica, fra il Settecento e l’Ottocento, tuttavia i Maîtres à penser dell’età contemporanea non condannano perché le idee che soggiacciono a tale azione predatoria corrisponde all’esigenza della Rivoluzione illuminista che, decennio dopo decennio con arricchimenti e degenerazioni filosofiche e applicative, ha condotto all’odierna globalizzazione forzata, alla democratizzazione di regime, alla Cancel culture. Interessante voce, a questo riguardo, è quella di Giorgio Cavallo, professore di storia e autore di diversi saggi, che ultimamente ha pubblicato per la Casa Editrice d’Ettoris, molto attenta ai contenuti che propone e alla cura della stampa e della legatura dei suoi libri, Napoleone ladro d’Arte. Le spoliazioni francesi in Italia e la nascita del Louvre, con la prefazione di Roberto Marchesini.

Scrive Cavallo: «L’azione vandalica dei rivoluzionari, ossessionati contro i simboli della religione e del vecchio regime, continuò» anche con Napoleone Bonaparte, «eppure, nel corso degli anni, andò sempre più spesso radicandosi la consapevolezza che la Rivoluzione poteva trarre frutto dall’arte trafugata. D’altronde, dopo aver cacciato i sacerdoti, i frati e le suore, dopo aver profanato le chiese e sbertucciato i fedeli, dopo aver sfasciato gli arredi sacri e arso o distrutto una parte del patrimonio artistico dei luoghi di culto, rimaneva pur sempre una incredibile quantità di oggetti sacri, di tele, di affreschi, di reliquiari la cui distruzione non avrebbe giovato alla causa rivoluzionaria, in quanto il grosso danno – e specialmente dello scandalo pubblico – era già stato fatto. Così, dopo la reprimenda dell’abbé Grégoire e l’azione coraggiosa di Lenoire, il pensiero dominante iniziò ad essere quello della nazionalizzazione del patrimonio artistico un tempo di proprietà della Chiesa e della nobiltà» (pp. 48-49). Insomma, chi aveva creato meraviglie per la Gloria di Dio e per dar lustro alla propria terra e casata venne condannato alla morte, all’esilio e alla damnatio memoriae – pensiamo al destino nell’immaginario collettivo in cui è stata affossata la stessa istituzione monarchica, abiettamente e falsamente considerata dal pensiero “libero”, “egualitarista” e “fraterno” come qualcosa di superato, vetusto e indegno del progresso. Ebbene, i rivoluzionari si sono impossessati di quelle meraviglie per lucrare e rendere merce fine a se stessa l’Arte (con la A maiuscola), rubando l’anima di quei capolavori realizzati da pittori, scultori e artigiani.

Il saccheggio è avvenuto in maniera formidabile in Italia, dilapidando chiese e monasteri, per volere proprio di Napoleone. La Rivoluzione francese e quella napoleonica, è bene riconoscerlo, si unirono alle idee comuniste. «Attenzione», scrive acutamente l’autore, «la lenta creazione del museo della nazione (il Louvre, poi ribattezzato Museé Napoléon) non fu dettata dall’esigenza positiva di istruire al bello il popolo francese, come talvolta si dice; mi pare evidente che l’intento fu un altro: quello di replicare le collezioni principesche, elevando la Repubblica a quel sommo grado di prestigio che ebbero le signorie italiane o la stessa corona francese. Una manifestazione di potenza, una dimostrazione della superiorità intellettuale della Francia […]. Il tutto, però, con una ulteriore interpretazione ideologica: si palesava lo scopo, squisitamente illuminista, di creare una Enciclopedia dell’arte, una ossessiva raccolta delle bellezze di ogni tempo e nazione, diventata con il passare degli anni e l’accumulazione di opere saccheggiate talmente vasta e caotica da rimanere una ostentazione fine a se stessa» (p. 49). La barbarie commessa dal pirataggio delle opere italiane divenne una «perversa evoluzione del vandalismo» dei primi anni della Rivoluzione francese.

Oggi si è costruito un Pantheon vertiginoso e nauseabondo in nome del «pluralismo» e dell’inclusività, dove anche l’AC –  acronimo ideato da Christine Sougens, che sta per Arte contemporanea che non vale nulla, ma è ghiotta merce ad elevati costi per i critici d’arte di fama internazionale e per la discultura dominante (comprese le lobby mediatiche) – rientra a pieno titolo per lobotomizzare il buon senso, anche artistico, di ogni persona che istintivamente, nella maggior parte dei casi, nasce per apprezzare il bello, il buono e l’ordine. Leggiamo nella sagace prefazione di Marchesini che riflesse sul compito della critica d’arte prona all’AC: «ha come scopo l’indurre nel visitatore un senso di colpa  per la sua ignoranza, per il provincialismo, per il fatto di non capire l’importanza insita in quella tela in disfacimento, in quel pezzo di pietra scolpito» (p. 10).

Giorgio Cavallo raccoglie nel suo testo, arricchito di pregevoli ed istruttive illustrazioni a colori in un apparato iconografico di estetico gusto, tutti i luoghi che sono stati sottoposti alle razzie napoleoniche, spoliazioni di oggetti arte, sacra e profana, che furono addirittura considerate legali, come dimostrano le clausole dei trattati di pace che Napoleone stipulò con i suoi avversari. Ma non tutti i capolavori furono ceduti grazie ai trattati, che peraltro consideravano soprattutto quelle provenienti dalle raccolte principesche. Le razzie di migliaia e miglia di opere, quindi la maggior parte, erano e rimasero fuori legge, ovvero quelle perpetrate ai danni di illustri proprietari, castellani, conventi, abbazie, cattedrali, vescovati… «Il tutto a discrezione dei commissari francesi inviati per scegliere, come in uno sconfinato mercato d’arte, i pezzi più pregiati» (p. 51).

Quali era gli obiettivi di coloro che esportavano i principi della Repubblica (una valida similitudine può essere tranquillamente fatta con i nostri liberali giorni)? Umiliare le nazioni sconfitte, contribuire alla cancellazione delle memorie e della monarchia tradizionale e dell’Ancien Régime, sottrarre i simboli iconici delle radicate dinastie familiari legate al trono e all’altare, e così facendo delegittimarle. «Ma nella mentre vulcanica  del generale Buonaparte vi era un’altra idea, che egli mise davvero in pratica non appena ottenne il pieno potere: creare un museo vastissimo, insuperabile, mai veduto da occhio umano», ossia una enorme Babele artistica costituita dai reperti di tutti i Paesi sconfitti, formando un Museo caleidoscopico dove tutto veniva incluso: senza coerenza, senza ordine e logica doveva tutto convivere, un principio caotico che nei nostri tempi trova in Occidente la sua apoteosi plastica in ogni dove.

I Savoia, spiega Giorgio Cavallo, grazie ad una opportuna indagine storiografica basata sulle fonti, furono i primi a sperimentare la bramosia d’arte dei generali francesi che avevano ricevuto al riguardo precisi ordini da Napoleone. Fra i capolavori sottratti alla collezione sabauda segnaliamo: l’Idropica di Gerard Dou (1613-1675), arrivata a Torino attraverso le acquisizioni del grande ed eroico condottiero principe Eugenio di Savoia, inoltre: 30 volumi dell’architetto, pittore e antiquario Pirro Ligorio del XVI secolo, conservati nell’Archivio di Corte; il Trittico dell’Annunciazione di Rogier Van Der Weyden; la Vergine con Gesù e san Giovanni Battista di Lorenzo Sabatini; la Cena in casa di Simone di Pierre Subleyras; 84 tele trafugate dalla pinacoteca dei Savoia, fra cui il Ritorno del figliol prodigo di Guercino e un’ Annunziazione di Orazio Gentileschi. Ma non basta, le spoliazioni proseguirono anche dopo il 1800.

Altri saccheggi si commisero nel Ducato di Milano, nel Ducato di Parma, Piacenza e Guastalla, nel Ducato di Modena, nel Ducato di Mantova, nella Repubblica di Venezia, nel Granducato di Toscana, nella Repubblica di Genova, nel Regno di Napoli. Durante le ruberie perpetrate ai danni di Venezia, venne portata via addirittura la Quadriga della Basilica di San Marco per farla collocare al di sopra dell’Arco di Trionfo del Carrousel a Parigi.

Terribile fu poi lo scempio nello Stato della Chiesa, dove venne commesso il «più sistematico dei saccheggi», visto che Roma era il cuore della cattolicità e delle sue meraviglie artistiche. Sul Campidoglio venne eretto l’albero della libertà, intanto Pio VI veniva perseguitato, vilipeso, arrestato e morirà in esilio e in ferma opposizione al regime rivoluzionario e totalitario. Quando gli fu chiesto di riconoscere la sovranità del popolo egli rispose che la sovranità viene da Dio e non dagli uomini, pertanto «”nella mia età di ottant’anni non ho nulla da temere, e soffrirò tranquille ogni strazio che di me potrà fare chi ha la forza in mano”. […] perì il 29 agosto 1799 a Valence-surRhône, prigioniero dei francesi, che solevano definirlo “cittadino Giovannangelo Braschi” o “Pio VI ed ultimo”». Pio VI, al contrario dei desideri rivoluzionari non fu l’ultimo Sommo Pontefice, ma è anche vero che nel sottrarre molte opere d’arte sacra a San Pietro, con le loro idee liberali e massoniche che proseguirono nel tempo minarono e fecero deflagrare il potere temporale del Papa, ma, cosa ancor più grave, le idee illuministe e progressiste penetrarono nei Sacri Palazzi e da allora è stata inclusa, come dimostrano molti esempi riportati nel libro L’Arte di Dio. Sacri pensieri e profane idee (Cantagalli, 2017) e in un significativo articolo pubblicato su «Europa Cristiana» alcuni numeri fa, «Il Santuario mariano di Oropa assediato e profanato da “Boogyeman & C.”»,  anche l’AC, che nulla ha da spartire con l’Arte Sacra.

Cristina Siccardi